giovedì 2 agosto 2012

Donne migranti

Regione di Hainaut, zona mineraria del Belgio
Foto di Marzia Bisognin


All'ospedale mi sentivo tanto triste, perchè non capivo una parola di quello che mi dicevano e non ero neanche al corrente di come nascesse una figlia. Pensavo "Stavolta madre e figlio se ne vanno". Ero completamente sola: mi ero sentita male proprio durante la notte e la mattina avevo questi doloretti di tanto in tanto, però non sapevo cos'era: pensavo solo che dovevo partorire. Non gli ho detto niente a Nestore perchè mi vergognavo, e poi, quando gliel'ho detto, per finire, che avevo questi dolori, lui andò a chiamare un medico che mi ha visitato e che mi ha detto che era ora che andavo in clinica. Allora Nestore mi ha accompagnato in taxi, e poi è andato a dormire. Quando è rivenuto non lo hanno fatto più entrare perchè non era orario di visite, e dunque la figlia m'è nata alle 13.30 del lunedì, quando ero praticamente sola, senza nessuno. E non capivo niente, non sapevo mezza parola di francese, chè non avevo avuto contatti con i belgi, conoscendo subito le altre italiane. Più che paura, mi prendeva la tristezza, la malinconia, quando pensavo al paese con tanta gente, madre, sorelle, amici, parenti, mentre qui non avevo nessuno, ero sola come un cane. Quello mi faceva rabbia. E poi non avevo nessuna esperienza, ero proprio all'oscuro di come nascesse questa figlia, e mi chiedevo: "E' possibile che dura tanto a lungo un parto? C'è qualcosa che non va, non è normale". E vedevo questi medici rimanere calmi, che non si preoccupavano, e mi dicevo: " Che razza di città è questa qui?".

Questa è la testimonianza di Enza, emigrata in Belgio dalla Calabria nel 1959, tratta da un libro molto bello: Italiane in Belgio di Myrthia Schiavo, pubblicato nel 1984.
La storia dei nostri emigrati viene per lo più raccontata come una storia di uomini. In Belgio, ad esempio, ci sono innumerevoli musei che testimoniano e narrano la vita dei minatori italiani. Le donne erano al loro seguito, con i loro figli e le loro storie private. Questo libro racconta l'emigrazione dal punto di vista delle donne.
Donne che hanno pianto lacrime di sangue, che sono arrivate in un paese di cui non parlavano la lingua, che hanno cresciuto i loro figli lontani dalla famiglia, che spesso li hanno dati alla luce senza intendersi con chi le assisteva. Donne che per potersi emancipare o anche solo per potere mantenere i figli - perchè si poteva restare vedove giovani, a sposare un minatore - hanno fatto una cosa inconcepibile nei paesi da cui provenivano: li hanno portati al Nido. A volte erano Nidi residenziali, ovvero ci portavi il bambino alla domenica sera e lo andavi a riprendere il venerdì sera. Fin da quando avevano pochi mesi, ancora lattanti. Donne forti, che a malapena avevano fatto le elementari, che hanno fatto studiare i figli e ne hanno fatto degli europei.
Sono storie struggenti, dure, che raccontano di un'Italia lontana, perchè gli italiani non emigrano più. Almeno non così, non da poveri a caccia di lavoro, disposti a tutto. E non esistono più nemmeno quelle italiane, disposte a seguire il marito ovunque, magari sposate per procura.
Le storie di questo libro però narrano cose che tante donne stanno vivendo oggi, accanto alle case in cui viviamo: le donne immigrate. I tempi certo sono cambiati, e non invano. Non è raro, ad esempio, che le donne oggi emigrino autonomamente, non al seguito del marito.
Ma ascoltare, dalla viva voce delle protagoniste, le testimonianze delle italiane emigrate, può aiutarci a comprendere meglio quali possono essere le difficoltà delle immigrate che oggi vivono in Italia.
Il libro è purtroppo introvabile, ma qualche biblioteca ce l'ha.

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