venerdì 7 marzo 2014

Maternità e femminismo

Danae, di Auguste Rodin



di Marzia Bisognin

Ho letto alcuni giorni fa su Facebook il post di una giovane donna che più o meno diceva così: le madri scelgono sempre la qualità, è la loro natura, e il femminismo anni Settanta ha perso.
Ho vissuto quella memorabile stagione, pur se come una sorellina minore che si è trovata il solco già aperto davanti. Ricordo con tenerezza quando passavamo i pomeriggi, armate di speculum, pila e specchio, a scoprire l'aspetto dei nostri genitali e come eravamo fatte dentro
Ricordo bene il tentativo di rintracciare e incarnare in noi stesse  quel noi e il nostro corpo che era il titolo del famoso libro scritto da un collettivo femminista di Boston, pubblicato in Italia nel 1974. Imparammo ad ascoltarci, a sentire il corpo dall’interno, dopo averlo studiato nei primi manuali di educazione sessuale.
Spaccammo il capello in quattro nei collettivi di autocoscienza, e come bulldozer emozionali mettemmo a soqquadro tutto quello che la società, o semplicemente le nostre mamme, si aspettavano da noi. Coltivammo con passione le relazioni tra donne.
Ancora in quegli anni,  gli abiti premaman erano pensati per mascherare l’indecorosa pancia, la parola “parto” era considerata sconcia, a “incinta” si preferiva “stato interessante”.  Non c'erano molti modi per affrontare gravidanza, parto e allattamento. Gli esseri umani crescevano nel mistero del ventre materno in seguito a un rapporto sessuale, dirompevano nel mondo facendosi strada nella carne dolorante, tra umori corporali che si preferiva non nominare. Punto.  
Se eri incinta ti sposavi, salvo poche eccezioni, il sistema patriarcale e sessista era forte e robusto.


Il movimento delle donne degli anni Settanta disertò dalla maternità. Se ne possono capire molto bene le ragioni, il dominio sul corpo femminile era potente, e il fascismo non era poi così lontano dalla memoria, con il suo culto della madre rurale, prolifica e sacrificale. Scendere in battaglia per liberarsi di quel modello richiedeva armi efficaci, mica belle parole. Occorreva che la battaglia entrasse nella vita quotidiana, dentro alle case, dentro alle relazioni familiari e a quelle sentimentali, fin dentro il proprio corpo.  Cosa poteva essere più sovversivo che rifiutare la maternità? Se la natura ci aveva reso schiave, la cultura ci avrebbe reso libere.


Non che fosse la prima volta che le donne irrompevano sulla scena pubblica, la parola “femminismo” aveva anzi quasi un secolo di vita, ma le battaglie erano state quelle del diritto al voto, dell’accesso all’educazione superiore e alle libere professioni, della gestione di eredità e  proprietà. Il  movimento femminista degli anni Settanta ha prodotto invece una narrazione degli aspetti più privati dell’universo femminile, ha dato dignità a temi scabrosi come mestruazioni, masturbazione, orgasmo. Ha dato centralità politica all'esperienza personale, ha introdotto nuove parole, che fecero virare il linguaggio politico verso quel il privato è politico che diventò il simbolo di un'epoca.

Fu solo per ragioni strategiche che la maternità restò sostanzialmente esclusa dal discorso femminista? Perché non riuscì a trovare parole e prospettive nuove? Forse quella cultura che  si traduceva in un continuo interrogarsi, nell'andare a scavare dentro di sé fin dentro le più oscure radici, quell'abbattere ogni consuetudine bruciandosi tutto alle spalle, era un patrimonio troppo fragile da gestire?
La maternità è densa di contraddizioni intrinseche. L'atavica paura del bambino mostro, la paura di covare colui che ti sarà nemico, o colui che non sarai capace di accogliere, sono paure che fanno parte del gioco. Forse affrontare queste ambivalenze avrebbe indebolito la lotta?
Non lo so, quello che so è che la maternità restò una patata bollente. Rimase esclusa come fosse una scelta involuta e regressiva, di cui valeva la pena occuparsi solo per liberarsene o per trovare formule di conciliazione con il resto della vita: asili Nido per per avere accesso al mondo del lavoro, anticoncezionali e diritto all'aborto per una libera autodeterminazione, biberon per non essere relegate nel privato e nel ruolo di addetta all'accudimento. Il movimento femminista non rivendicò e non riconobbe la gravidanza e il parto come esperienze formative, di crescita personale, di  scoperta di sé. Di quel  sé di cui invece si faceva un gran discutere. Il pensiero critico, se così vogliamo chiamarlo, si arenò davanti a questa soglia. Le poche che si occuparono di maternità analizzarono principalmente  la  relazione con la propria madre, come fossimo destinate a restare sempre e solo figlie.
Così, abbandonata a sé stessa, la maternità rimase sguarnita di pensieri, idee, discussioni, quasi che abitasse una dimensione parallela. Quasi che, nel momento dell’inizio della gravidanza, si salisse su un altro treno. Fin dal momento così denso di sentimenti ambivalenti in cui una donna si rende conto di essere incinta. 

Ci furono sparuti gruppi di donne che, spesso per ragioni biografiche, fecero di gravidanza e parto il cuore del loro attivismo. Fu un piccolo movimento di nicchia per l'autogestione della salute, della gravidanza e del parto. Ne sono stata testimone e protagonista. Scoprimmo anche la figura dell’ostetrica, e che la nascita di un bambino è un evento nel quale due donne agiscono insieme. Scoprimmo l’importanza della relazione empatica e direi quasi affettiva fra le due.
Tra i pochi libri militanti che si occupavano di nascita, uno su tutti: Riprendiamoci il parto, pubblicato in Italia nel 1977 da Savelli. Raccontava l’esperienza di un gruppo di femministe americane agli inizi degli anni  Settanta,  arrestate in massa dalla polizia californiana per pratica medica illegale. Un libro fatto di testimonianze dirette, illustrato da tante foto, che mostrava per la prima volta donne che partorivano al di fuori dell'ambiente ospedaliero, su un materasso steso a terra nella propria casa, circondate da amiche, compagno, bambini, con il neonato in braccio appena uscito, ancora umidiccio.
Per molte di noi, quel libro fu un inizio.
Il femminismo mise alla berlina la famiglia tradizionale, la coppia come migliore cornice del viver felice. Oggi invece, nonostante le statistiche ci parlino di una società sempre più eterogenea, la famiglia sembra essere tornata in auge come  unica, adeguata cornice in cui far nascere un bambino.  Per rendersene conto basta leggere un manuale per futuri genitori, la home page di un sito  che proponga corsi pre-parto, qualsiasi dépliant che parli di maternità e di nascita. Sembra che l'unico modo legittimo per fare un figlio sia programmarlo facendo un buon uso degli anticoncezionali, farlo nascere all'interno di una coppia pronta a saltare a piè pari dall'essere una coppia erotica al diventare famiglia, seguire uno stile di vita sano per nove mesi, attendere il lieto evento serene e rilassate, e infine accogliere il bambino con gioia. Tutto è al plurale, come se la specificità femminile nel percorso fosse sempre più sbiadita, indistinguibile da quella maschile. I corsi pre-parto sono rivolti alle coppie, e il massimo della mistificazione l'ho trovato in una testimonianza che si concludeva con “alla fine abbiamo deciso di abortire”. Quello che accade nel corpo della donna è diventato patrimonio della coppia. Era naturalmente auspicabile che gli uomini si sentissero coinvolti in prima persona, dal concepimento fino a trovare un nuovo modo di essere padri, e il fatto che sia successo è una gran bella conquista per tutti. Però è un'evidente manipolazione della realtà che il corpo della donna non sia più solo il suo, bensì sia  patrimonio della coppia, oggetto di pianificazione familiare. Certo ne è passata di acqua sotto i ponti, dal il corpo è mio e lo gestisco io del femminismo anni Settanta.
La società in cui viviamo è più complessa di come ce la raccontano i manuali, i bambini nascono in tanti contesti diversi e soprattutto potere scegliere di essere madre non garantisce, come si era creduto all'inizio, una maternità migliore. Non solo perché la libertà di scelta è forse un'illusione, ma perché appesantisce il peso delle responsabilità: più si è libere di scegliere, più si hanno responsabilità e doveri. Niente può fare presagire cosa sarà quel tempo speciale che è l'attesa di un figlio. Si diventa qualcosa che prima non si conosceva, ed è un'esperienza potente, che può essere esaltante ma anche destabilizzante e angosciosa. Alla buona madre contemporanea non è concessa l'ignoranza, la distrazione, l'ambivalenza e tanto meno l'infelicità.
“Quando i figli non sono pensati, la donna non riesce a vivere la cosiddetta gestazione psichica necessaria come quella biologica per prepararsi alla nascita”, questa la lapidaria sentenza di un'esperta a proposito dei cosiddetti figli dell’errore, ovvero quelli che nascono non programmati.
Oggi gravidanza, parto e puerperio sono abitate da due principali scuole di pensiero, che si fronteggiano e si spingono fin nel territorio dei primi passi dell'infante.
C'è il naturismo estremo, che rivaluta l'istinto materno e la dedizione totale al figlio. Per realizzare la sua autentica natura, la donna non ha che da diventare madre. Nel bel tempo che fu, le partorienti erano libere dagli artigli dei medici e, circondate dall'amore femminile delle comari, davano alla luce neonati rosei e sani, senza lamenti. Si arriva fino alla declinazione contemporanea del tremate tremate le streghe son tornate di antica memoria: i cerchi di donne che,  ebbre di luce lunare, invocano la Dea Madre. Si rivalutano i pannolini lavabili, indispensabili per salvare il pianeta, e si auspica un allattamento prolungato, fino alle soglie delle elementari. Come se tutto ciò che era, fosse migliore di ciò che è.
Numi tutelari di questa visione, vengono elette le donne che appartengono a culture tradizionali, agricole, basate su economie di sussistenza: eritree, indiane, indonesiane, pakistane. Ovvero le stesse donne che incontriamo ogni giorno nelle strade delle nostre città e con cui condividiamo i reparti maternità degli ospedali.  Solo che loro si stanno emancipando dall'agricoltura di sussistenza e spesso  aborrono allattamento al seno e parto a domicilio, in quanto simboli di miseria e arretratezza. Per una ragazza che viene da un paese  avanzato come l'Olanda, al contrario, sono pratiche consuete e auspicabili, simboli di una società del benessere.


Sul fronte opposto del naturismo,  l'emancipazione e la modernità coincidono con  l'affrancamento dalla schiavitù del corpo che ci offre la scienza medica.  Il parto fisiologico e l'allattamento al seno sono pratiche arcaiche  e quanto più sapremo sfruttare le nuove tecnologie, tanto più saremo protette dai rischi e libere. Come se tutto ciò che è, fosse migliore di ciò che era.

L’utero artificiale attualmente può sembrare fantascienza, ma certamente è solo un problema di tempi tecnici, poiché l'utilizzo della surrogacy ha già rotto l'indissolubilità del corpo materno con il figlio. Oggi è possibile cercare su internet un'agenzia di maternità surrogata, acquistare un ovulo da una donatrice, il quale verrà fecondato in vitro e infine impiantato nell'utero di un'altra donna. Quest'ultima quindi è solo l'incubatore di un essere con cui non condivide neppure una minuscola elichetta del suo DNA.  Arrivare all'utero artificiale, come quello di Matrix, è dunque solo questione di tempo. Potrebbe inorridirci l'idea, eppure non ci inorridiscono gli articoli sui giornali che quasi ogni giorno ci dicono che tutto penetra la placenta e danneggia il nascituro. Lo stress materno, un drink per aperitivo o uno qualunque di quegli incidenti di cui la vita è costellata: se il compito della gestante è creare un ambiente perfetto come un laboratorio, se la vita stessa sembra poterlo contaminare, un utero artificiale non sarà che la logica conseguenza.
Non penso che la radicalizzazione ideologica sia causata dalla mancata presenza del pensiero femminista sulla scena della maternità, almeno non principalmente. Penso piuttosto che i cambiamenti degli ultimi cinquant'anni anni non siano ancora stati metabolizzati. La possibilità di pianificare la gravidanza con l'uso della pillola, di seguire gli sviluppi del feto durante la gestazione con l'ecografia, di concepire con la fecondazione in vitro, di far crescere un figlio nella pancia di un'altra, hanno prodotto profonde trasformazioni ancora in fase digestiva.
La percezione stessa del corpo oggi nemmeno assomiglia a quella delle nostre progenitrici. Un tempo non lontano era una faccenda di sensazioni, di flusso sanguigno, di ristagno di liquidi, e questa percezione informava tutto l’immaginario. Oggi è diventata una faccenda di analisi, di ovociti, di morfologia degli organi, di patrimonio genetico. Un tempo non lontano quello che accadeva nel ventre materno era un mistero che si svelava solo nel momento della nascita. Oggi il feto è una realtà sociale fin dai primi mesi di gestazione, e si mettono sui social network le immagini ecografiche che lo immortalano mentre si ciuccia il dito.
La gravidanza è una condizione esistenziale della donna, la quale non è più quella di prima e non è ancora quella che sarà dopo, sono mesi di formazione interiore. Oggi però la donna incinta è sempre più indotta a percepirsi come l’ambiente in cui cresce il suo bambino, ben distinta da lui, e i suoi doveri primari sono quelli di preservare l'illibata purezza di questo ambiente con una vita sana e fare continue indagini cliniche per scongiurare ogni rischio.
Ma la nostra psiche e il nostro immaginario hanno assorbito, metabolizzato, questi mutamenti? Siamo davvero riuscite a tenere il passo con i tempi? Oppure il disagio e lo smarrimento delle madri del giorno d’oggi ha a che fare con tutto questo?
Nel mondo in cui viviamo, occorre ridefinire che cosa è la natura, che cosa è la cultura, che cosa è la tecnica. Senza arroccarsi su concetti  prêt-à-porter. Si può diventare madri, oggi più di ieri, in tanti modi diversi. Ci sono maggiori opportunità, maggiore conoscenza, maggiore benessere, maggiore libertà. Allo stesso tempo ci sono competenze che si perdono,  problemi etici che si pongono alla nostra coscienza, smarrimenti sconosciuti, profonde solitudini.
Quello di cui si sente la mancanza è un pensiero critico, spregiudicato, che  vada oltre l'estremismo ideologico che si è sviluppato sulla maternità, che affronti i vagabondaggi interiori delle madri, i temi della libertà di scelta e delle nuove tecnologie. Un pensiero che sappia articolare la complessità contemporanea. Che cosa significa, nel panorama attuale, essere libere di scegliere? E che cosa significa, in senso più ampio, essere madri consapevoli e donne libere?
Un punto di vista femminista? Forse lo si può chiamare così, se con questa parola definiamo quel pensiero che si interroga sulla dignità e la libertà delle donne.











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